LE OPERE DI MISERICORDIA CORPORALE | «…l’avete fatto a me»

È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli. Riscopriamo le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti.
(Misericordiae Vultus 15)

Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fino dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere ero forestiero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. (Mt 25,34-36). Gesù si identifica con gli affamati, gli assetati, i forestieri, gli ignudi, i malati e i carcerati: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. (Mt 25,40)

Dare da mangiare agli affamati

Quando Gesù parla di fame, non intende soltanto lo stomaco che brontola. La Fame per lui è una metafora della fame più profonda dell’essere umano. Parla della fame di giustizia. A Satana che vuole tentarlo a trasformare le pietre in pane per poter saziare tutti, risponde: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Mt 4,4). Che cosa nutre davvero gli esseri umani? Che cosa placa i loro aneliti e bisogni profondi dell’anima e del corpo? Ognuno di noi incontra persone affamate d’amore, di affetto e di conferme e che hanno fame di possedere qualcosa che nutra la loro anima: parole di cui possano vivere, uno sguardo che le risollevi in piedi. Un episodio importante del Vangelo è la moltiplicazione dei pani. Gesù ha compassione della gente che lo seguiva. I suoi discepoli lo esortano a congedare la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare. Ma Gesù dice ai suoi discepoli, cioè a ciascuno di noi: voi stessi date loro a mangiare. E’ una domanda rivolta a noi come Chiesa, se diamo alle persone ciò di cui hanno davvero fame o se inganniamo la loro fame con roba a buon mercato. La richiesta di Gesù di dar da mangiare agli affamati è una provocazione anche per la politica: non dà pace ai politici, affinché si impegnino per un’equa distribuzione dei beni. Nell’epoca della globalizzazione, ogni decisione politica necessita oggi di uno sguardo sulla globalità: non basta vedere soltanto il vantaggio del proprio paese, abbiamo sempre la responsabilità di tutto il mondo. L’aiutare necessita di una grande responsabilità per non trasformarsi nell’umiliazione dell’altro. Molti cristiani cercano di seguire la parola di Gesù facendo offerte o organizzando delle collette per persone in Africa o in altre zone in stato di emergenza. Ma non è sempre facile decidere se do davvero da mangiare a un affamato o se mi faccio soltanto imbrogliare da un trucco raffinato. Chi manca del necessario ha diritto a pane e dignità: la carità è un atto di giustizia verso i poveri, assetati di fraternità. Si può vivere per donare agli altri oppure rinchiusi nel proprio io. A noi decidere quale strada percorrere.

Dare da bere agli assetati

buonomini assetatiQuando siamo ospitati in una casa spesso ci viene chiesto cosa desideriamo bere. Offrire qualcosa da bere all’altro è una forma importante di ospitalità. Dare qualcosa da bere all’ospite è una forma importante di dedizione. In essa non si placa soltanto la sete esteriore dell’essere umano, ma anche la sete di vicinanza e di affetto. Nei Vangeli la sete è simbolo e immagine dell’anelito più profondo dell’essere umano. Quando Gesù parla con la samaritana (Gv 4), non si tratta soltanto di acqua, ma di sete del cuore. In questo episodio narrato da Giovanni, Gesù ha sete e dice alla samaritana: Dammi da bere. Ma, parlando con la donna della sete dell’acqua, arrivano a parlare di temi più profondi: della sete di amore, di vita, di vitalità. Il dialogo con la donna diventa più profondo va a toccare la sua e la nostra vita. Gesù le chiede: va a chiamare tuo marito e ritorna qui. Gesù vuole riferirsi alla sete d’amore. La donna sostiene di non avere marito. Gesù risponde: hai detto bene: Io non ho marito. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero. Sei uomini non hanno placato la sete d’amore della donna, una donna che come molti di noi forse ha confuso il piacere di una relazione con l’amore che diventa scelta e progetto di vita. Gesù dice alla donna e a ciascuno di noi che la vera sete dell’essere umano è quella d’amore. E questa sete non sarà mai placata soltanto da esseri umani, ma solo se l’amore di Dio si riversa in noi e diventa in noi la sorgente di quell’amore che non si esaurisce mai e che è indipendente dall’amore di cui in quel momento facciamo o non facciamo l’esperienza grazie agli altri. L’acqua che Gesù ci dà da bere è il suo Spirito. Vuole diventare dentro di noi una sorgente che zampilla, che ci preserva dall’inaridire interiore.
L’acqua è un elemento essenziale alla vita dell’uomo e della natura. Per questo l’accesso all’acqua potabile è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani. Questo mondo ha un grave debito sociale verso i poveri che non hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto alla vita radicato nella loro inalienabile dignità. Garantire l’acqua per tutti in maniera duratura è il compito politico ed economico del futuro.

Accogliere gli stranieri

buonomini accogliere i forestieriL’accoglienza l’ospitalità dello straniero è un valore presente in molte culture e tradizioni. Anche la Bibbia ci presenta racconti ed episodi di grande valore umano e spirituale nell’accoglienza dello straniero fino a giungere all’affermazione: Dio ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, perché voi foste stranieri nella terra d’Egitto (Dt 10,18). Nel NT ricordiamo in modo particolare i discepoli di Emmaus e il viandante straniero che riconosciuto diventa il Risorto. Ospitalità non significa adempiere coscienziosamente a un dovere e prendersi cura del forestiero ma, prima di tutto essere aperti a ciò che il forestiero porta a casa mia, ciò che vuole dirmi. Il forestiero mette in discussione l’edificio della mia esistenza: mi mostra nuovi modi in cui posso vivere. Non devo accoglierlo soltanto per compassione, ma anche sempre avendo fede nel fatto che nel forestiero incontro Cristo stesso.
Accogliere i forestieri oggi ha assunto una dimensione politica, al di là dell’ambito privato. Numerosi stranieri, migranti e profughi, si riversano nei nostri paesi, perché non trovano possibilità di vivere nei luoghi dove abitano. Da tempo siamo diventati una società multiculturale. Naturalmente ci sono problemi nella comprensione e nell’integrazione degli stranieri. E ci sono limiti alla capacità di una società di accoglierli. Molte parrocchie hanno offerto asilo agli stranieri, adempiendo così la parola del Signore, favorendo buone pratiche per l’integrazione e l’accoglienza degli stranieri nella nostra società. Anche qui non dobbiamo aspettare la politica e scaricare su di essa il compito dell’integrazione. Per ognuno di noi si pone l’interrogativo: come mi comporto con i fratelli stranieri, come parlo di loro, come parlo con loro? Ognuno di noi ha un sufficiente numero di occasioni per difendere la causa degli stranieri, rispettarne la dignità e tutelarla quando questa non è gradita dagli altri. Ognuno di noi ha a che fare con gli stranieri. E ognuno è chiamato ad accoglierli e a non respingerli o rifiutarli. Il forestiero che accolgo può trasformarsi addirittura in un dono, in una risorsa, un bene per la comunità.
Fare spazio agli altri significa dare una casa all’Altro. L’accoglienza ci rende inquieti ma ci spalanca orizzonti nuovi. Domani saremo ricordati per avere aperto il cuore e le città o per esserci trincerati nell’egoismo?

Vestire gli ignudi

buonomini vestire ignudiCosa c’entra un vestito con la misericordia?
Possiamo rispondere a questa domanda ricordandoci di san Martino con il mantello che tagliò e donò a un mendicante. Martino non sapeva che nel mendicante incontrava Cristo stesso. Divise il mantello semplicemente perché il mendicante che pativa il freddo lo aveva commosso. Soltanto dopo la sua azione riconobbe che nel mendicante aveva incontrato Cristo stesso. Oggi si fanno molte raccolte di indumenti usati per aiutare i poveri in zone in difficoltà. Spesso in questo modo i vestiti usati vengono smaltiti in maniera pratica e con ciò di cui non si ha bisogno si possono ancora aiutare gli altri. Ma con quest’opera di misericordia Gesù intende qualcos’altro. L’abito non fa il monaco dice il proverbio. Oggi per molti ragazzi, e non solo, la smentita di questo proverbio è un’amara realtà. Soprattutto i giovani con poca autostima devono indossare abiti firmati: solo così vengono presi sul serio dai compagni di classe e dalle amiche. Molti genitori si arrabbiano quando i figli chiedono loro in lacrime degli abiti firmati. Chi non ha fiducia in se stesso ha bisogno di vestire la sua nudità con cose esteriori. Gli abiti ci adornano, ma non costituiscono il nostro essere persona. Essere nudi ha un significato più profondo. Le persone spesso si sentono messe a nudo se vengono criticate pubblicamente, se si discutono in pubblico le loro azioni e i loro pensieri, non di rado falsandoli. Non possono difendersi dai pregiudizi che incontrano. Rivestire una persona del genere è un’opera di misericordia. Invece di contribuire alla chiacchiere e segnare a dito gli altri, è necessario coraggio per rivestire quella persona, per proteggerla, per prenderne le parti, persino con il rischio di essere presi a propria volta di mira dalle critiche.
La Bibbia ci parla della vicenda di Noé: Si ubriacò e si denudò all’interno della sua tenda (Gen 9,21). L’ignudo non è soltanto il povero, bensì sovente, chi viene spogliato oppure colui che si è messo a nudo da solo, come Noé nella sua ebbrezza. Chi schernisce la nudità degli altri e, con i suoi discorsi, la accresce, in fin dei conti danneggia se stesso. Quando il figlio prodigo torna a casa, il padre misericordioso fa portare il vestito più bello e glielo la indossare. L’amore di Dio è come una veste che ci protegge. E così dobbiamo ricoprire con la veste dell’amore anche le persone che incontriamo nella loro nudità e nella loro vergogna. Ma per poter circondare gli altri della veste dell’amore, dobbiamo prima di tutto indossare a nostra volta la veste della Grazia. Paolo esorta i Colossesi a rivestirsi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità (Col 3,12).

Visitare i carcerati

buonomini carceratiQuest’opera di misericordia è una delle più difficili da praticare, giacché il carcere non è un ambiente aperto e accessibile a chiunque. Le leggi e i regolamenti consentono visite esclusivamente a persone autorizzate e a volontari preparati. L’opera di misericordia è comprensibile e attuale se si considera il problema del carcere nel suo insieme e nei riflessi che produce. Anzitutto il carcerato è una persona che soffre, perché privata della libertà, perché si sente causa di altre sofferenze, perché si sente emarginata e condannata ancora prima della sentenza definitiva. Finché sta in carcere è sempre possibile tenere con lui un rapporto epistolare: è una strada per impedire che la violenza del contesto carcerario lo faccia disperare. Forse l’aiuto maggiore può essere offerto al termine della pena: un aiuto fatto di vicinanza, di sostegno nel reinserimento lavorativo, nel recupero di relazioni più o meno compromesse. Più grave, in alcuni casi, è la situazione della famiglia. Il coniuge deve portare il peso della solitudine e dell’umiliazione e spesso deve affrontare seri problemi finanziari. I bambini, vittime innocenti, talvolta leggono sul volto del coetaneo lo scherno e il disprezzo; rischiano di veder segnata la loro fanciullezza e adolescenza da un marchio: sono i figli del carcerato.
Il carcere rappresenta oggi il lato oscuro dell’uomo, è simbolo di una società malata. Il carcere è lo specchio in cui siamo chiamati a vedere le nostre colpe il nostro male. Il male ha un nome: droga, violenza, rapina, crimine, omicidio, il rubare. Perché la persona arriva a commettere atti contro il prossimo danneggiando se stesso e gli altri?
Forse la prigionia più oscura da accettare non è quella del carcere, ma la prigionia della propria paura, della depressione, dalla nevrosi interiore, prigionieri delle proprie emozioni che non riusciamo a viverle e ad esprimerle donando all’altro e a noi stessi la gioia dell’incontro. C’è bisogno di un cuore che abbia compassione dei carcerati, c’è bisogno di misericordia per trovare il coraggio di andare dai prigionieri, entrando nella loro paura, nella loro solitudine, nella loro depressione. E c’è bisogno di confidare che lì non incontriamo soltanto il prigioniero, bensì una persona in cui c’è Cristo stesso. In ciascuno riconosciamo anche il desiderio profondo di evadere dalla prigione e di crescere a immagine di Gesù. Credendo al Cristo presente nel carcerato gli consentiamo di evadere dal carcere della condanna e dell’autopunizione e di osare il cammino nella libertà, incarnando quella forma unica e originale che Dio ha sognato per lui.

Visitare i malati

buonomini visitare infermiI parenti e gli amici vanno a trovare i loro malati negli ospedali, portando dei fiori o qualcos’altro, e si intrattengono con loro per parlare e mostrarsi vicini. Quest’opera di misericordia ci aiuta a porci la questione sul come visito il malato o la persona inferma. Non si tratta di compiere un dovere, ma di entrare in empatia con la persona che sta soffrendo. Visitare significa avere interesse per l’altro, guardarlo con attenzione, chiedersi che pensieri lo attraversino, come stia davvero, interessarsi a lui.
Nei Vangeli Gesù risana i malati e i malati vanno da lui per essere guariti. La parole greca e latina per malato significano debole. Paolo nelle sue lettere mette in conto che tra i cristiani ci siano molti deboli, in contrasto con i forti. Fate coraggio a chi è scoraggiato, sostenete che è debole – i malati – siate magnanimi con tutti (1Ts 5,14). Giacomo esorta i malati a chiamare a sé i presbiteri della comunità, affinché preghino su di loro dopo averli unti con olio nel nome del Signore (Gc5,14). Quando il NT parla del far visita, intende prima di tutto il fatto che Dio visita gli uomini: Benedetto sia dio che ha visitato e redento il suo popolo (Lc1,78).
Visitare il malato è incontrare il mistero della sofferenza, del dolore, del male che uccide. Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Nel malato risiede un mistero, perciò il visitatore riceverà qualcosa dall’infermo: in lui incontrerà il mistero della vita e della redenzione, incontrerà la malattia che distrugge il corpo ma non l’animo del malato. La malattia affrontata in una visione di fede, non porta alla disperazione, ma a cogliere il mistero della sofferenza di Dio per l’umanità.

Seppellire i morti

buonomini seppellire i mortiVivere la fine per capire la vita. In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine. L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, dal timore di una distruzione definitiva. La pratica di seppellire i morti è sempre stata segno di civiltà. Tale prassi implica infatti, tre valori di grande significato: il rispetto della dignità della persona che comprende anche la cura dei suoi resti mortali (da sottrarre agli animali o alla possibile profanazione da parte di nemici o di malintenzionati), la convinzione che in qualche modo ci sia una continuità della vita anche dopo la morte, la consapevolezza che il defunto non esca dalla comunità umana.
Oggi nelle grandi città, ci sono sepolture anonime. Taluni parenti non vogliono affrontare il funerale e il lutto, lasciando così intenzionalmente disporre, si cela però qualcosa di tremendo: non si vede il defunto come persona a cui si deve molto, come persona con cui si è vissuto e si sono condivise gioie e dolori, bensì come una merce senza valore di cui sbarazzarsi. In questa tendenza dei funerali anonimi si fa visibile quella disumanizzazione che si sta diffondendo in certi ambienti. Tanto più importante è che oggi cerchiamo delle forme di sepoltura che rendano giustizia all’essere umano. Fra queste attenzioni è incluso il fatto che ci riserviamo un tempo sufficiente per prendere congedo dal defunto, senza lasciarci prendere dagli addetti ai lavori: le imprese funebri.
Manteniamo la sepoltura nel cimitero, vediamolo come luogo del riposo in Cristo e nella Chiesa di chi attende la risurrezione, consideriamolo una realtà che indica in un modo molto simbolico la comunione tra la comunità cristiana dei vivi e quella dei defunti. Andiamo a pregare sulle tombe dei nostri cari e di tutti coloro che nella nostra comunità hanno con noi pregato, amato, servito il Signore e i fratelli e hanno vissuto la loro avventura umana e di fede. Sia l’occasione per rinnovare in noi la fede nella risurrezione, per pregare per i nostri cari e per confidare nella loro preghiera. Nell’attesa di ritrovarci un giorno tutti insieme nel Signore, cittadini della città santa, uomini e donne viventi nel Signore nella terra e nei cieli nuovi dove abita la giustizia (2Pt 3,13).

(Le immagini di questa sezione sono particolari delle Opere di Misericordia raffigurate nell’Oratorio dei Buonomini, in piazza San Martino a Firenze)