UOMINI E DONNE DI MISERICORDIA | L’umanesimo fiorentino ha il volto della carità

Siamo qui a Firenze, città della bellezza. Quanta bellezza in questa città è stata messa a servizio della carità!
(Discorso di Papa Francesco nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, 10 novembre 2015)

L’umanesimo, di cui Firenze è stata testimone nei suoi momenti più creativi, ha avuto sempre il volto della carità. Che questa eredità sia feconda di un nuovo umanesimo per questa città e per l’Italia intera.
(Omelia di Papa Francesco allo Stadio A. Franchi di Firenze, 10 Novembre 2015)

La storia fiorentina antica e recente è piena di uomini e donne che hanno accolto la Misericordia di Dio e che a loro volta hanno l’hanno esercitata verso i fratelli. L’elenco potrebbe essere infinito: qui ci limitiamo ad indicarne sette (come il numero delle opere di misericordia) che appartengono a epoche storiche lontane tra di loro e che hanno operato in ambiti diversi: nella loro opera possiamo comunque riconoscere il riflesso del Padre misericordioso che accoglie, perdona e sostiene chi è nella sofferenza, nel bisogno o nelle difficoltà della vita quotidiana.

monna tessaMonna Tessa

una donna al servizio dei malati

(m. 1327)

Fu una domestica di casa Portinari; la tradizione fiorentina la vuole nutrice di Beatrice, la donna amata da Dante. La famiglia apparteneva al ceto mercantile e Folco di Ricovero fu uno dei più ricchi cittadini di Firenze del XIII secolo. Sposato con Cilia de’ Caponsacchi, padre di numerosi figli, come molti grandi protagonisti di ascese economiche rilevanti, giunto alla fine della vita, dedicò parte dei suoi beni ad opere di misericordia: nel suo caso alla costruzione dell’Ospedale di Santa Maria Nuova, il più antico nosocomio fiorentino. La fondazione avvenne negli anni 1285-1288; Folco si spense nel 1289.  Pare che l’ispiratrice di questa opera di carità sia stata la fantesca Tessa. Scarse sono le notizie su una figura femminile che suscita curiosità, a cominciare dal nome.
Tessa è il diminutivo di Contessa, titolo nobiliare di quella Matilde di Canossa, feudataria della Toscana, entrata ben presto nella leggenda. Alle bambine veniva dato spesso questo nome dal significato ben augurale: si faceva riferimento al potere straordinario esercitato dalla nobile signora ed alla fama raggiunta. Inoltre appare strano l’appellativo “Monna”, che sta per “madonna” e che di solito era  riservato alle signore del tempo. Forse lo acquisì per la sua nobiltà di spirito.
Le notizie sicure sono poche: Tessa si era sposata con Ture, di professione bastaio; poi  era rimasta vedova. Anche Folco aveva  perduto la moglie: a Firenze c’erano molti malati ed inoltre  vi giungevano persone spesso in non buone condizioni di salute. Tessa cominciò a pensare a quanti soffrivano per strada, poveri, infermi, senza tetto. Nata nel 1350, ancora giovane e piena di energia, terziaria francescana, attinse alla spiritualità del santo di Assisi. Servire i sofferenti, riconoscere nelle loro piaghe quelle di Cristo, dedicare interamente se stessi agli altri sono atteggiamenti in linea con il pensiero di Francesco. Da qui nasce l’idea dell’Ospedale. Fu autrice anche di una vera e propria rivoluzione nella prassi del tempo: con lei le donne diventarono personale fisso nell’Ospedale, posto che la cura dei degenti era di solito affidata a uomini. Folco accettò di buon grado; la costruzione crebbe lungo quella che diventerà via Portinari.
L’esempio di Tessa è contagioso e molte donne di famiglie nobili la seguono: Margherita e Nuta de’ Caponsacchi, sorelle della moglie di Folco; Giovanna de’ Cresci e Antonia de’ Visdomini. Si tratta del primo nucleo delle Oblate, che diventeranno col tempo la Congregazione delle Suore Oblate Ospedaliere di S. Maria Nuova.  In quell’edificio le Suore hanno vissuto per oltre sette secoli, secondo la Regola francescana, senza prendere i voti, vivendo in una quasi clausura, usando addirittura un sottopassaggio per raggiungere l’Ospedale, quando questo fu spostato sull’altro lato della Piazza.  Una misericordia attiva, quella di Monna Tessa e delle sue seguaci, la cui vita si può sintetizzare in preghiera, azione concreta, dedizione totale alla sofferenza umana. La lapide di Tessa in Santa Maria Nuova ce la mostra anziana, forte, avvezza alla fatica.  È una delle figure più amate dai Fiorentini.

antonino pierozziSant’Antonino Pierozzi

il vescovo dei poveri e dei “buoni consigli”

(Firenze 1389- Montughi 1459)

Fu frate dell’Ordine dei Predicatori, teologo, priore del Convento di San Marco, poi arcivescovo di Firenze, letterato.
Antonino, che in realtà si chiamava Antonio, ma si vide alterare il nome a causa della sua gracilità, secondo il popolo fiorentino è riconoscibile nel vescovo sdentato e di profilo che si trova, a sinistra di chi guarda, sotto il manto della Madonna della Misericordia dipinta nella cappella Vespucci in Ognissanti da Domenico Ghirlandaio nel 1475. I critici d’arte pensano a Giovanni de’ Diotisalvi, all’epoca sulla cattedra di san Zanobi, ma la tradizione popolare inclina per una interpretazione che lega Antonino alla misericordia di Maria, di fatto protettrice della città, e ad opere caritatevoli da lui stesso fondate e sostenute.  E’ il caso della Compagnia dei Buonomini di San Martino, risalente al 1441. I dodici uomini che la componevano avevano lo scopo preciso di aiutare i poveri “vergognosi”. Si trattava di appartenenti a famiglie  già ricche e spesso nobili, che erano andate incontro a rovesci di fortuna. Coloro che avevano vissuto una vita da signori, si vergognavano di chiedere l’elemosina pubblicamente. Spesso questi improvvisi fallimenti economici erano determinati da questioni politiche: una famiglia poteva  cadere in disgrazia presso chi deteneva il potere, in questo caso i Medici,  e la vita di molte persone cambiava da un momento all’altro. I Buonomini, con un manto nero e un copricapo rosso, andavano incontro a queste necessità per volere del Pierozzi, che li aveva scelti tra nobili, borghesi, artigiani, operai iscritti a nessuna Arte.
Antonino, che per questa e altre sagge decisioni fu chiamato “Antonino dei buoni consigli”, era evidentemente convinto che la carità non si legava ad alcuna casta sociale.   L’oratorio tutto affrescato in Piazza San Martino  è luogo di grande suggestione e conserva anche un busto del santo la cui festa ricorre il 10 maggio. Quelli che papa Eugenio IV definì gli “Angeli di Firenze”, allorché non avevano più soldi in cassa, accendevano una candela vicino alla porta d’ingresso. Erano “ridotti al lumicino”: quel segnale scatenava in Fiorenza una gara di carità. L’ultima volta che il lume fu acceso correva l’anno 1958 e in capo a due ore la cassetta delle  elemosine traboccava. La Confraternita è ancora attiva.
L’azione del santo arcivescovo fu  quella di riorganizzare le istituzioni di carità, dando a ciascuna di esse un compito proprio: lo Spedale degli Innocenti si specializzò per i trovatelli, gli orfani, i fanciulli; l’Oratorio di Gesù Pellegrino in via San Gallo divenne sede della Compagnia per l’assistenza  ai sacerdoti anziani (i Pretoni).
La pastorale lo dimostra  attento e sollecito delle condizioni del suo gregge. Ci sono parti della sua opera più famosa, la Summa moralis, cui vale la pena accennare. Egli condanna la pessima abitudine dei ricchi di far lavorare gratis per loro tornaconto artigiani e contadini; denuncia casi di uomini costretti ad accettare qualunque condizione di lavoro per necessità; discute sulla questione dei salari, spesso del tutto inadeguati all’impegno e alla fatica profusi; giudica negativamente la prassi usata da tanti proprietari di pagare l’operaio in natura e non col denaro, strumento necessario per acquistare viveri e abiti.

Santa Maria Maddalena de’ Pazzi

l’invito ad amare l’Amore

(Firenze, 2 aprile 1566 – 25 maggio 1607)

Nasce nella famiglia che ha rivaleggiato con i Medici, che ha ordito la congiura, che ha risollevato le sue sorti dopo esilio e confische. Il nome  di battesimo è Caterina, ma la chiameranno Lucrezia come la nonna. Il Palazzo di Borgo degli Albizi e la villa di Palagiano di Prato la vedono bambina, pronta ad insegnare ai coetanei quello che sa su Dio; a dodici anni ha una esperienza mistica. È una ragazza vivace, ma ama il silenzio e la meditazione; si rifugia in luoghi nascosti, veglia, fa penitenza. Il padre di Caterina si trasferisce a Cortona: la fanciulla viene affidata alle suore Ospedaliere di san Giovanni di Gerusalemme, in San Giovannino dei Cavalieri.
A sedici anni, nonostante l’opposizione della famiglia, entra nel Carmelo di Santa Maria degli Angeli. È serena, silenziosa, sorridente: vive in uno stato di unione con Dio. Parla solo di Lui. Nel 1584 si ammala: si teme per la sua vita e allora il 27 maggio, festa della Santissima Trinità, diventa Suor Maria Maddalena. Inizia un crescendo di estasi, di intuizioni teologiche, di parole sapienti e poetiche che vengono fissate dalle consorelle. Dopo l’eucarestia la sua anima è presa da una irrefrenabile voglia di lodare Dio, di gridare il suo amore per lui. “E correndo per la camera, stringendosi al petto il suo Jesu che teneva in mano, andava gridando: ‘Amore, amore’ e spesse volte faceva il più bel riso, con un giubilo che era una consolazione a sentirla”.
Riceve delle stimmate che non si vedono sul corpo, ma che essa sente; Maria la avvolge nel suo velo; si vede protagonista di un matrimonio mistico col Signore, alla presenza di sant’Agostino e di santa Caterina da Siena. Segue un periodo di aridità spirituale, lontana dall’amore di Dio. Con la penitenza sconfigge le tentazioni, finché il Signore le parla di nuovo, chiedendole l’impegno per il rinnovamento della Chiesa. La suora scrive al Papa, ai cardinali, all’arcivescovo di Firenze. Nella Pentecoste del 1590 torna a sentirsi amata e si dedica alle novizie di cui è la maestra.
Chiama le consorelle volando nei corridoi e gridando: “Ad amare, anime, venite a amare l’Amore, da cui siete tanto amate. A amare, a amare”. La sua fine sarà scandita dalla voglia di soffrire come Cristo e per lui. In quattro anni e mezzo di “nudo patire”, raccomanda di vivere in semplicità e povertà. Muore nel 1607. E’ la donna che ha messo in risalto la bontà paterna di Dio. L’infinito amore del Padre dona il Verbo  e attraverso la sua santa umanità entra in comunione con l’umanità di tutti tramite il dono dello Spirito Santo. Dio è amore, la volontà di amare e di donare amore è alla base dell’Incarnazione ed è l’Umanità di Cristo a redimerci. Cristo è amore e come tale è chiamato da Maria Maddalena.
“O Amore, dammi tanta voce che chiamando te io sia sentita dall’Oriente insino all’Occidente/ E da tutte le parte del mondo, etiam nell’Inferno, accioché da tutti tu sia conosciuto e amato”. Per la mistica  fiorentina la Trinità è misericordia infinita, tale da rendere l’anima dell’uomo capace  di adorarla.

San_Filippo_NeriSan Filippo Neri

la misericordia del sorriso

(Firenze  21 Luglio 1515- Roma 26 maggio 1595)

È l’uomo dei ragazzi di strada, dei bambini abbandonati nella Roma della fine XVI secolo. Grazie a lui recuperavano l’infanzia che le circostanze della vita avevano loro scippato: erano figli di nessuno o di prostitute, che venivano sfamati e fatti divertire, strappati ai pericoli di una vita randagia, senza alcuna distinzione fra maschi e femmine. Giocavano e cantavano, ma anche si avvicinavano alle celebrazioni liturgiche. Nacque così l’Oratorio, che papa Gregorio XIII nel 1575 riconobbe come Congregazione. Alcuni nobili rampolli di stirpe principesca si unirono alla brigata di “don Pippo”, mentre dal gruppo dei  suoi ragazzi uscirono anche studiosi e prelati di un certo livello.  La chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma ne custodisce le spoglie.
A Firenze un tabernacolo di Borgo Tegolaio,  all’angolo con Via Mazzetta, segna la casa in cui egli visse con la sua nutrice. Era figlio di un notaio, che poi divenne alchimista; secondo di quattro fratelli, la madre morì quando egli aveva cinque anni. Studiò prima in famiglia, poi presso il Convento di San Marco. Ebbe cari due libri: le Laudi di Jacopone da Todi e le Facezie del Piovano Arlotto, il sacerdote fiorentino che faceva dell’umorismo la sua arma vincente .
A diciotto anni lasciò Firenze per diventare commerciante presso uno zio a Cassino. Sentì una improvvisa vocazione religiosa: costruì una cappella a picco sul mare a Gaeta ed ogni giorno vi andava a pregare. Lo zio voleva farlo suo erede universale, ma Filippo rifiutò. Andò pellegrino a Roma e  divenne precettore di due bambini, Michele e Ippolito Caccia, che poi sarebbero diventati l’uno sacerdote diocesano a Firenze, l’altro certosino.  Il suo stipendio era un sacco di grano. Viveva di pane, olive e digiuno. Intanto frequentava teologia alla Sapienza e dagli Agostiniani.  Col ricavato della vendita dei suoi libri, permise a Guglielmo Sirleto di dedicarsi allo studio: questi diventerà poi cardinale.
Cominciò a frequentare l’ospedale San Giacomo da volontario e visse  episodi straordinari come la dilatazione del cuore e delle costole durante la preghiera di Pentecoste alle Catacombe di S. Sebastiano.  Ciò lo spinse a essere eremita tra le vie di Roma, a dormire nei portici delle chiese, a dialogare con chi lo prendeva in giro, a conquistare i giovani con la sua dialettica e ad esortare: “Fratelli, state allegri, ridete pure, scherzate finché volete, ma non fate peccato”. “State buoni, se potete” ripeteva ai suoi bambini. In seguito ad un tranello tesogli da alcuni giovinastri che lo avevano lasciato solo con una prostituta teorizzava che “le tentazioni si vincono resistendo ad esse, ad eccezione di quelle carnali, dove è solo fuggendo che si hanno gloriose vittorie”. La sua carità si riversava sui malati e i pellegrini, sui poveri e sugli emarginati.
La vicenda di “Pippo buono” non è fatta solo di aneddoti ma  di cultura, di creatività, al limite forse della bizzarria. Solida era la sua base evangelica: amore per il prossimo, prevalere delle mortificazioni spirituali (lotta alla vanità) su quelle fisiche, allegria, buonumore, semplicità. L’incontro con Dio, la lettura del Vangelo nascevano in un clima disteso, dove la musica aveva la sua importanza. L’arte divenne strumento di catechesi a portata di tutti. La sua può essere definita la misericordia del sorriso e della azione, quella di chi sa di dover portare ai fratelli la gioia del Signore e di chi è convinto che il Paradiso non sia fatto per i poltroni.

Don_Raffaele_Bensidon Raffaele Bensi

il prete dell’ascolto e del perdono

(Scandicci, 11 febbraio 1896 – 4 aprile 1985)

Per i fiorentini  semplicemente è stato “don Bensi”.  Dal 1919, anno della sua ordinazione,  fu legato alla chiesa di San Michelino Visdomini, di cui divenne parroco nel 1932, rimanendolo fino alla  fine della sua vita.  Professore di religione in vari licei classici, ha formato generazioni di cattolici fiorentini. È stato direttore spirituale, guida di molti personaggi di spicco nella cultura della città; tra gli altri ha avuto un costante rapporto con don Lorenzo Milani.
È il sacerdote della confessione, l’uomo dell’ascolto; la sua casa di via dei Servi è stata un porto sicuro, sul piano dello spirito, in momenti difficili, dal fascismo alla guerra, dal dopoguerra agli anni di piombo. Non ha affidato le sue parole alla carta, ma al cuore e alla memore riconoscenza di chi lo ha incontrato. Soprattutto ha inquadrato la missione del prete nell’orizzonte della misericordia di Dio. L’urgenza di dare, la necessità del presbitero di imitare Cristo nel suo donarsi sono  segno della misericordia divina e mezzo sicuro per ottenere misericordia da parte del Signore.
In una sua Omelia egli afferma:
“C’è nell’anima questo bisogno non incidentale ma sostanziale di donarsi, dall’alba al tramonto, trascurando ogni nostro desiderio: ‘devo essere un buon pastore’, che dà la sua vita, come Cristo l’ha data, in modo assoluto. Così il cristianesimo vivo è fatto non di parole, ma di aspirazioni vere, vissute’ Il cristianesimo è ‘al pari del pane ‘ un continuo spezzarsi, perché tutti mangino: perché tutti hanno il diritto di avere da noi. Ma Signore questo tuo cristianesimo è terribile: chi potrà viverlo totalmente, compiutamente? Ed ecco perché gli altri che hanno ascoltato questa grande parola, dicono che i preti e i cristiani sono ipocriti. Ma Signore io sono sicuro che Tu non sei come gli uomini. Se vedi in me e in loro la passione di dare, anche se non siamo come Tu vuoi, sono sicuro che ci guarderai con occhi di misericordia”.
La circolarità della misericordia era alla base del suo pensiero: l’uomo deve usarla nei confronti degli altri, perché ne è oggetto da parte dei Dio.
La meditazione del Corpus Domini del 5 giugno 1958  è in alcune sue parti pagina di luce:  “Ecce Agnus Dei. Ecce qui tollit peccata mundi: mio Dio, mio Dio, come mi sento solo tante volte con la mia anima, come la mia memoria trasuda, come nel mio cuore pesa il peccato, come nella vita diventa lancinante: chi mi toglie il peccato? Né tu mamma, né tu amico, né tu sposa, né tu figlio: tu non puoi togliermi il peccato. Tu sei un uomo come me… Cristo piglia il mio peccato, piglia il mio peccato e mi ammette su nel Paradiso…Diventa misericordia il mio peccato assunto in Cristo, assunto, preso, non distrutto, ma misericordia eterna. E sarà con me nel Paradiso il mio peccato in Cristo”.

don Giulio Facibeni

il “Padre” degli orfani

(Galeata, 29 luglio 1884 – Firenze, 2 giugno 1958)

Nato da una famiglia modesta, studiò nel seminario di Faenza, si iscrisse a Lettere a Firenze nel 1904 e si mantenne lavorando come assistente al semi-convitto delle Scuole Pie Fiorentine dei Padri Scolopi.
Fino da giovane si prese cura dell’educazione dei bambini. Ordinato sacerdote nel 1907 a Fiesole, lasciò gli studi e si impegnò nelle scuole serali di Santa Maria al Pignone, con le figlie dei carcerati, con gli studenti delle scuole secondarie, che chiamava “i cittadini del futuro”: nel 1910 fondò Italia Nuova, circolo degli studenti cattolici delle scuole secondarie e lo dotò anche di un giornale, dallo stesso titolo.
Dal 1912 venne mandato come vicario a Santo Stefano in Pane, in un quartiere proletario, industriale, con molti problemi, nei quali don Giulio subito si immerse. In particolare lo preoccupava l’educazione dei piccoli. L’inizio della Grande Guerra lo sorprese in parrocchia: organizzò subito un asilo per i figli dei richiamati. Al fronte, come cappellano militare nella IV Armata, sull’Isonzo e sul Monte Grappa si guadagnò una medaglia d’argento al Valor Militare. Sotto il fuoco nemico, fuori dalla trincea, cercava di recuperare i feriti e di confortarli, chiudeva gli occhi ai morti, senza fare distinzione tra austriaci e italiani.
Spesso raccoglieva le ultime parole di quei soldati che gli raccomandavano i figli. Così nacque l’Opera della Madonnina del Grappa, inaugurata il 4 novembre 1924 a Rifredi. Don Giulio scriverà che Dio “l’ha voluta in questo quartiere operaio, aliena da umane protezioni e sicurezze e sostenuta dalla preghiera e dal lavoro degli umili, perché fosse Apologia vivente della Divina Provvidenza”. Gli orfani accolti furono 12 nel 1924, 100 nel 1928, 350 nel 1939.
Indipendente dal regime fascista, di cui denunciava pubblicamente i misfatti, durante la Seconda Guerra Mondiale Facibeni riuscì a fare molto per profughi e ricercati, nelle case aperte in molte zone della Toscana. Soprattutto si spese per la salvezza degli Ebrei e dei loro bambini; con alcuni ebbe un rapporto di amicizia e di forte empatia. A Louis Goldman regalò addirittura una grammatica della lingua ebraica perché mantenesse la sua fede e le sue tradizioni.
Cittadino benemerito di Firenze (1951), medaglia d’oro dell’Università fiorentina per i suoi meriti nel campo dell’educazione (1957), don Giulio morì il 2 giugno 1958 e tutta la città si fermò per la perdita del “Padre”, come veniva chiamato da tutti. Dal 2 settembre 1996 risulta  iscritto nell’Albo dei giusti  tra le nazioni a Yad Vashem; il 4 agosto 2007 sul Grappa la sua memoria è stata  insignita della Croce d’Onore dal Governo austriaco per la sua pietà, capace di vedere nel soldato ferito o morente un uomo bisognoso di conforto e non un  amico o un nemico.

Giorgio La Pira

il “sindaco santo”

(Pozzallo, 9 gennaio 1904 – Firenze, 5 novembre 1977)

È stato docente universitario di diritto romano,  uomo politico, Padre costituente, sindaco di Firenze, terziario domenicano. È soprattutto l’uomo che, intendendo la misericordia come compartecipazione alle sofferenze altrui, vide nella politica il mezzo più efficace per aiutare il prossimo.
Capace di unire preghiera e contemplazione all’azione sociale concreta, fin dal 1934 fondò l’Opera di San Procolo. Attorno all’altare della Messa domenicale, nella chiesa di  Via de’ Giraldi,  si riunivano i poveri e quanti vivevano nella Firenze del disagio: le persone dimesse dall’ospedale che non sapevano dove andare, gli ex carcerati, chi aveva trovato un posto negli ospizi, chi dormiva al dormitorio popolare. La Pira, dopo la celebrazione dell’Eucarestia, parlava loro di giustizia, di pace, ma soprattutto di Chiesa. E pregava con loro. Seguivano la distribuzione del pane benedetto e quella di un po’ di denaro, perché la condivisione fosse completa.  Il successo dell’iniziativa fu straordinario e per La Pira divenne un appuntamento irrinunciabile, anche quando  per il numero straordinario di partecipanti la Messa fu celebrata alla Badia Fiorentina, a Santi Apostoli, al Cestello. Spesso le decisioni più importanti venivano annunciate in anteprima a quegli “amici” che per il Professore erano davvero speciali. Dopo la morte di La Pira, fu Fioretta Mazzei a  portare avanti l’iniziativa che, ancora oggi,  continua nella  splendida chiesa di Via del Proconsolo.
Misericordia per La Pira, sulla base della Bibbia, significava anche tenerezza, lealtà, fedeltà, disponibilità, disinteresse., derivanti dalla fede nel Signore Risorto: “Sullo sfondo della vita di tutti c’è sempre il dolore: ma per quanto aspro esso sia, la speranza e la certezza nella misericordia del Signore lo vince e lo trasforma. In un senso profondo, ogni vita umana è un dramma divino: e in essa ha parte essenziale la Provvidenza di Dio che tutti gli atti nostri connette e coordina ai fini più eccelsi”. Dio operava nella sua vita: “Ancora una volta, con i suoi mille interventi, aiuta e sospinge i nostri sforzi in sé da sempre deboli e imperfetti: mi ha dato prova di quella sua indefettibile sapienza e misericordia della quale non bisogna mai dubitare”.
Così La Pira  si mise alla ricerca del dialogo fra le persone e fra i popoli, inseguendo l’unità e la pace; cercò di “abbattere muri, costruire ponti”, sognando il Mediterraneo pacificato, “lo specchio più luminoso della terra”. Si prese cura di operai e disoccupati unendo  legge e preghiera. Fu l’uomo della misericordia senza retorica.